Diversi anni fa, penso fosse il 1993, per una di quelle singolari coincidenze che capitano una sola volta nella vita, mi accadde di restare chiuso con la mia fidanzata (oggi mia moglie) all’interno della sala da concerto in cui, dopo circa un’ora, si sarebbe esibito Pogorelich.
Tutto il pubblico fuori, all’esterno del teatro o nel foyer. Io e la mia fidanzata seduti ai nostri posti, nella galleria del cinema-teatro di quella piccola cittadina di provincia, dove eravamo arrivati con largo anticipo rispetto all’orario di inizio del concerto. La sala già completamente al buio, tranne il palcoscenico col pianoforte. E al pianoforte Pogorelich (che all’inizio avevo scambiato per l’accordatore!) che provava parti del concerto di quella sera. Pensando di essere da solo.
Probabilmente era arrivato in ritardo e aveva chiesto all’organizzazione di tenere il pubblico fuori dalla sala per poter provare il pianoforte. E così avevano chiuso gli accessi, non accorgendosi che noi due eravamo già dentro.
Non se ne accorse nemmeno Pogorelich, e così per circa un’ora potemmo osservarlo, muti e immobili, mentre provava il programma di quella sera, che prevedeva nella prima parte alcune sonate di Scarlatti, e nella seconda Brahms (Capriccio op. 76 n. 1 e Intermezzo op. 118 n. 2) e Liszt (sonata in si minore); provò anche l’intermezzo op. 117 n. 1 di Brahms e Islamey di Balakirev, che avrebbe eseguito come bis.
Non l’avevo mai sentito né visto prima, Pogorelich. Ma leggevo le riviste specializzate, e sapevo del concorso Chopin, della Argerich, di Karajan; avevo letto alcune interviste in cui, talvolta, si lasciava andare ad affermazioni un po’ deliranti (del tipo, sono erede diretto di Liszt, o Busoni era un dilettante rispetto a me); avendo amici in Conservatorio, avevo capito che vantava stuoli di fan adoranti, soprattutto del sesso gentile e di quello intermedio (e guardando le sue foto mi sembrava di capirne le ragioni), ma non solo; avevo anche percepito che tra gli addetti ai lavori stava sul naso a molti e che non era tanto simpatico nemmeno a Rattalino, che pure diceva di restare affascinato dai movimenti delle sue mani, “la danza di nozze di due crostacei”: un’immagine bellissima, e molto azzeccata secondo me.
Ero curioso, quella sera. E rimasi folgorato.
Durante quell’ora scarsa in cui potetti osservarlo indiscretamente dal buio del mio nascondiglio (e un pò ancora me ne vergogno), suonò con una concentrazione, una tensione e una partecipazione emotiva assolute, commoventi.
Non era solo “come” suonava, ma anche “cosa faceva mentre” suonava. Non saprei descriverlo a parole. Posso solo dire che metteva i brividi.
A un certo punto suonò i due intermezzi di Brahms. Li suonò per intero. Era una musica che non conoscevamo, e rimanemmo impietriti. Dal pianoforte usciva una musica lenta, dolcissima e disperata, e disperato sembrava lui stesso. Ricordo quel capo, tutto proteso all’indietro in un gesto scomposto, la bocca spalancata, un’espressione di estrema sofferenza. Per un attimo, avemmo l’impressione che piangesse, ma eravamo lontani forse non era così. La sua immedesimazione era totale. La musica lo attraversava e lo deformava, e ne usciva arricchita di una malinconia e di un dolore che sembrava conoscere molto bene, o che forse solo intuiva, non conoscendoli. Come riesce solo ai veri artisti.
L’ho risentita più volte quella musica da quel giorno, in diverse interpretazioni. Non sono molti quelli che sono riusciti a scendere così in profondità. E quel giorno, in quella “prova”, la sua gestualità era spesso sconcertante, scomposta, ma dava i brividi perché era spontanea, era naturale. Era vera. Nulla a che spartire con la gestualità teatrale e vacua di tanti giovani giullari della tastiera, che pure vanno per la maggiore.
A circa metà della prova, approfittando di una breve pausa, sul palcoscenico apparve timidamente il garzone del bar, con un bicchiere d’acqua su un vassoio. Pogorelich si alzò in piedi, era in jeans, maglietta bianca e scarpe da tennis. Altissimo. Gran bel ragazzo. Scambiò due parole col giovane, in modo molto semplice, cordiale, alla mano. Molto lontano dall’immagine di Divo che mi ero figurata leggendo di lui.
Prima della fine, provò Islamey, che non conoscevo (non conoscevo nulla di quel programma). Adesso lo conosco bene, purtroppo, e lo trovo francamente orribile (Islamey, non il programma). Però quel giorno, ascoltandolo per la prima volta da Pogorelich, rimasi abbagliato da tanto virtuosismo, per di più condito da tutta una serie di sibili, di mugolii e di altri accidenti del pianista; sicchè sull’ultima raffica di accordi, in preda all’emozione, io e la mia fidanzata scattammo in piedi dai nostri nascondigli in galleria e…applaudimmo. Applaudimmo!
Non ce lo siamo mai perdonati. Pogorelich, che stava già avviandosi verso le quinte, si fermò e si girò di scatto guardando verso la galleria, visibilmente sorpreso e contrariato. Giusto un attimo, quello che bastò per farci sprofondare. Poi si girò e lasciò il palcoscenico.
Pochi attimi dopo, si accesero le luci in sala e il pubblico cominciò ad affluire. Poco dopo, di nuovo Pogorelich in scena, in frac. (Continua)
|